Home Editoriali Il Premierato della Meloni: il grande inganno

Il Premierato della Meloni: il grande inganno

Il disegno di legge sul premierato trae origine da un misto di arroganza e di dilettantismo, tanto più grave in quanto concerne modifiche alla legge fondamentale che potrebbero pregiudicare il futuro della nazione (per usare un termine in linea con i dettami del nuovo corso) nei prossimi decenni.
La premessa da cui parte il governo è corretta, l’unica cosa corretta di tutta la vicenda. L’instabilità condiziona le nostre istituzioni fin dalla proclamazione della Repubblica, con maggiore accentuazione in alcuni periodi per l’incertezza del quadro politico.
Ma per porre rimedio al problema sarebbe stato sufficiente studiare e adattare all’Italia uno dei modelli vigenti negli altri paesi occidentali. Non c’era che l’imbarazzo della scelta, fra il cancellierato tedesco e il presidenzialismo degli Stati Uniti, fra il semipresidenzialismo francese e il premierato inglese.
Invece, il governo ha scelto di inventare un modello che non esiste in nessun altro paese. Che, anzi, esisteva in Israele, ma è stato abolito dopo una sola legislatura in quanto accresceva la instabilità che, in teoria, avrebbe dovuto eliminare.
È una scelta temeraria, tanto più se si considera che nella maggioranza non ci sono figure comparabili, nemmeno alla lontana, a un Calamandrei, a un Mortati, a un De Gasperi, a un Vittorio Emanuele Orlando, a un Francesco Saverio Nitti.
In aggiunta, il modello è stato completato con delle integrazioni palesemente abnormi – probabilmente necessarie per dare un contentino alle diverse componenti della maggioranza – che hanno trasformato la proposta in un ircocervo che non trova nessun riscontro nella storia della legislazione di rango costituzionale.
Una Costituzione afferma principi e valori e lascia alla normativa ordinaria la disciplina di attuazione.
Il disegno di legge partorito dal governo Meloni, invece, è confuso sui principi e si diffonde sugli strumenti, scendendo in disposizioni di dettaglio funzionali alle beghe politiche quotidiane o, ancora peggio, alla propaganda da piazza o da social in cui molti esponenti di questa maggioranza sono esperti.
Per non appesantire il discorso ci soffermiamo solo sulla anomalia più grave.
Stabilire in Costituzione la percentuale di seggi da assegnare alla coalizione vincente senza avere determinato né la tipologia di legge elettorale, né le soglie di accesso al premio di maggioranza è una sgrammaticatura che non sarebbe consentita nemmeno a uno studente del primo anno di giurisprudenza.
Nel merito, attribuire il 55 per cento dei seggi alle liste collegate al candidato Presidente del Consiglio vincente senza stabilire una soglia minima di consensi richiama alla memoria la Legge Acerbo approvata su proposta dal governo Mussolini nel 1923 che, però, aveva fissato, comunque, una soglia minima del 25 per cento (soglia ridicola ma, comunque, meglio di nessuna soglia)  per l’attribuzione del premio di maggioranza. Legge alla quale fecero seguito le elezioni del 1924 che portarono al trionfo del listone fascista e all’inizio del regime.
Cosa ancora più grave, il modello è stato già bocciato dalla Corte Costituzionale che ha abrogato le norme della legge Calderoli (il famigerato porcellum) che prevedevano un premio di maggioranza senza soglia di accesso  (sentenza n. 1/2014) e ha confermato la stessa pronuncia nella sentenza n. 35/2017 che ha abrogato alcune norme della legge elettorale n. 52/2015 (cosiddetto Italicum).
Ovviamente un quorum minimo ragionevole e costituzionalmente legittimo potrebbe essere fissato nella legge elettorale. Ma, in tal caso, la norma costituzionale dovrebbe prevedere l’ipotesi di mancato raggiungimento della soglia. Invece, secondo il nuovo articolo 92, l’assegnazione del premio con il 55 per cento dei seggi è una assoluta certezza che non prevede eccezioni. Nemmeno se la lista o le liste collegate al Presidente del Consiglio prendono meno del 25 per cento dei voti.
Se la Meloni voleva dimostrare che Mussolini era un campione di democrazia ci è riuscita perfettamente.
Al di là degli errori di tecnica legislativa, le obiezioni più gravi sono relative alla visione che è alla base della riforma.
Una riforma che parte dal disconoscimento della separazione dei poteri e dalla teoria – comune a tutti gli autocrati, da Orban a Erdogan  – che chi vince le elezioni prende tutto, controlla tutto e decide tutto.
Se il disegno di legge dovesse essere approvato nella forma attuale il Premier avrebbe il pieno controllo non solo del governo ma anche del Parlamento, potendo scegliere il 55 per cento dei parlamentari. E, attraverso un governo e un Parlamento vincolati al suo potere di nomina, potrebbe decidere anche sulla scelta degli altri organi costituzionali di garanzia e di controllo.
La Presidenza della Repubblica, la Corte Costituzionale, il Consiglio Superiore della Magistratura, le Autorità indipendenti, diventerebbero tutti, in via immediata o in via mediata, delle “dependance” di Palazzo Chigi.
Un potere autocratico senza limiti e senza controlli per il quale sarebbe sufficiente una percentuale di voti favorevoli anche inferiore al 25 per cento che, considerata la attuale partecipazione al voto, potrebbe corrispondere a poco più del 15 per del corpo elettorale.
Inoltre, a differenza di Putin o del Presidente degli Stati Uniti che possono essere eletti per un massimo di due mandati, il nostro premier potrebbe essere rieletto a vita.
Se si aggiunge che l’attuale Presidente del Consiglio, tanto per fare un caso concreto, è espressione di un partito a conduzione familiare, in cui il gruppo dirigente è costituito da lei, dalla sorella, dal cognato e da un ristretto numero di suoi amici di infanzia,  si può avere un quadro completo della deriva verso la quale l’Italia sarebbe avviata se la riforma dovesse essere portata a buon fine.
Contrariamente a quanto affermato dalla Presidente del Consiglio non è nemmeno vero che aumenterebbe il potere di scelta dei cittadini, i quali, invece, avrebbero un ruolo assolutamente residuale. Non sceglierebbero i deputati, che continueranno ad essere designati dai leader di partito. Non sceglierebbero il premier, in quanto la scelta dei candidati premier sarebbe fatta dai partiti prima delle elezioni e prima che si possa sapere quanti voti prenderà ciascun partito. Potrebbe verificarsi che un candidato premier e la sua lista abbiano meno voti di un altro partito della coalizione vincente, come già avvenuto in una recente tornata elettorale. Ma la rigidità del sistema obbligherebbe il presidente della Repubblica a dare, comunque, l’incarico al designato.
Non bisogna essere Montesquieu per capire che il modello proposto dal governo è contrario alle tradizioni di tutte le democrazie occidentali ed è pericoloso per l’Italia.
Rafforzare il ruolo del Presidente del Consiglio può essere una scelta valida. Purché, però, si creino i bilanciamenti necessari, si rafforzi il Parlamento e lo si renda immune dai condizionamenti di Palazzo Chigi,  si irrobustiscano i poteri di intervento del Presidente della Repubblica e della Corte Costituzionale per evitare straripamenti pericolosi del potere esecutivo e si impedisca al governo qualunque condizionamento della magistratura.
In caso contrario è un diritto e un dovere di tutti i cittadini difendere la democrazia e la costituzione. Fortunatamente, nonostante la sciagurata decisione dei partiti di opposizione di presentarsi alle elezioni in ordine sparso, la maggioranza non ha i due terzi delle Camere. Il referendum sarà una grande occasione di mobilitazione popolare senza i condizionamenti delle liste e dei nominativi dei candidati.