La legge elettorale con la quale andremo a votare il 25 settembre è palesemente finalizzata a comprimere gli spazi di scelta dell’elettore a vantaggio delle segreterie dei partiti che, attraverso meccanismi contorti e al limite (per alcuni aspetti, oltre il limite) della legittimità costituzionale, riescono ad imporre le proprie decisioni al corpo elettorale.
Basti considerare una vera e propria abnormità giuridica:
l’elettore, sia per la Camera che per il Senato, deve eleggere due parlamentari, uno per il collegio uninominale e uno per il listino proporzionale.
Eleggere due parlamentari, in qualunque sistema elettorale, significa esprimere due voti. Invece, con una norma, antidemocratica sul piano politico, incongruente sul piano tecnico e, probabilmente, illegittima sul piano costituzionale è
previsto che il voto debba essere uno solo, così che all’elettore è vietato scegliere un candidato più vicino al territorio o più qualificato, a meno che non rinunci a votare il partito nel quale si identifica. Con questa legge, il cittadino è stato espropriato di ogni possibilità di incidere sulla composizione delle assemblee parlamentari e gli è rimasta solo la facoltà di dire sì o no alle decisioni dei capi partito.
Ma, uno degli effetti più pericolosi è di provocare una distorsione dei risultati in senso maggioritario che potrebbe avere gravissime conseguenze sulla salvaguardia delle istituzioni. Probabilmente gli apprendisti stregoni che l’hanno voluta e approvata non immaginavano che questa legge avrebbe potuto attribuire alla parte politica vincente, pur con un consenso popolare inferiore al 50 per cento dei voti espressi, un numero di
seggi superiore ai due terzi di Camera e Senato. Con il conseguente potere di modificare ”ad libitum” la Carta costituzionale, bypassando il referendum confermativo che ha consentito, negli anni scorsi, agli italiani di bocciare riforme costituzionali ritenute lesive dei principi democratici.
Dal momento che questa evenienza potrebbe verificarsi nelle elezioni del 25 settembre, riteniamo doveroso rivolgere un appello ai cittadini perché si riapproprino, nei limiti e nelle forme consentite, del potere di incidere sulla formazione della futura maggioranza parlamentare, sfruttando i pochi spazi di libertà che il legislatore non ha potuto
eliminare.
L’elettore ha due voti, uno per la Camera e uno per il Senato. Secondo gli esperti di sistemi elettorali e sulla base delle esperienze delle ultime legislature, l’assemblea nella quale è più difficile, per la coalizione vincente, ottenere una maggioranza assoluta (e,
ancora di più, una maggioranza dei due terzi) è il Senato, sia perché viene eletto su base regionale, sia per altri fattori relativi alla composizione della assemblea.
Il nostro invito è di utilizzare il voto del Senato per ostacolare il successo della coalizione di destra, e, comunque, per impedire che possa conseguire una maggioranza dei due
terzi. L’elettore voterebbe: alla Camera, per il partito o lista nei cui programmi si identifica idealmente; al Senato per il Partito Democratico, che è l’unico che ha la
possibilità di fermare la marcia della coalizione guidata da Giorgia Meloni verso i due
terzi dell’assemblea, evitando, in tal modo, che possano essere stravolti i diritti e le libertà garantiti dalla Carta costituzionale.
Non si chiede a nessuno di rinnegare le proprie idee. Si invita, solo a sfruttare in modo intelligente uno spazio di scelta che la legge elettorale è stata costretta a lasciare ai cittadini.
Ogni elettore, con il voto alla Camera per il proprio partito di riferimento, riaffermerebbe
le proprie convinzioni politiche.
Il voto di resistenza costituzionale al Senato servirebbe a impedire che una maggioranza di destra possa cancellare o limitare le libertà personali, i diritti dei lavoratori, la
progressività delle imposte, i diritti delle minoranze, l’indipendenza della magistratura, la libertà di stampa e tutti gli altri diritti e libertà garantiti dalla Costituzione repubblicana che fanno parte del patrimonio consolidato degli Italiani, ma che in altri Paesi, come l’Ungheria di Orban, punto di riferimento primario dei partiti della coalizione di destra, sono stati aboliti e/o messi in discussione dalle controriforme del regime.